E se fosse uno scherzo del destino?
Milano non ha mai desiderato essere protagonista, eppure suo malgrado è luogo di rotture epocali sin dai tempi dell’arrivo di Giulio Cesare, che trova di suo gusto gli asparagi con le uova.
Nel 313 da Milano l’imperatore Costantino emana l’editto che sancisce la libertà di religione. Nel 390 Ambrogio, vescovo della città, afferma “il primato del vescovo” e nega l’ingresso in chiesa all’imperatore Teodosio, responsabile dell’uccisione di 7000 persone. Prima deve pentirsi e fare penitenza, solo poi seguirà il perdono misericordioso.
Secoli macinano secoli, sino a quel giorno primaverile del 1805. Napoleone Bonaparte, dentro il Duomo e avvolto da mistica sacralità, prende con le proprie mani la Corona Ferrea e se la impone. “Dio me l’ha data e guai a chi me la toglie”. Nulla sarà come prima. Irrompe la modernità.
Poco meno di dieci anni sono trascorsi dall’arrivo a Milano di quel ventottenne generale francese, che alla guida di un esercito “brontolone” di popolo, ha le idee molto chiare, vuole cambiare tutto.
Dalle carte della repubblica Cisalpina prima e Italiana poi, conservate all’Archivio di Stato di Milano, scorrono dirompenti fiumi di adrenalina. Il tempo non è mai sufficiente, fugge via troppo in fretta per una generazione di venti-trentenni. Sono tutti per Napoleone. Eppure prima non se la passavano male. Gli austriaci sono tolleranti verso le nuove idee del “Caffè” di Beccaria e dei Verri, governano bene, ci tengono che tutto sia messo per il meglio, begli edifici nuovi crescono un po’ ovunque nelle forme eleganti dei tempi classici, le attività prosperano, le innovazioni pure, i beni improduttivi del clero vengono espropriati. Nonostante ciò, per quei giovani tutto questo non basta. Vogliono essere artefici del proprio destino, pensare con la propria testa.
Napoleone li appassiona: libertà, progresso, vita migliore. Parla italiano, la loro lingua che poi è anche la sua, quella che si usa in famiglia con mamma Letizia, le sorelle, i fratelli. Sembra sincero, soprattutto quando evoca una nazione italiana.
Gli anni repubblicani sono febbrili, si fanno progetti: pochi quelli realizzati nell’immediato, molti quelli che saranno ripresi nei decenni successivi, anche dopo l’Unità d’Italia.
Eppure l’entusiasmo è a mille, ogni giorno è una ragione di felicità, ci s’innamora, si lavora, si aprono scuole, licei, politecnici ed accademie, si fanno scoperte che portano nomi italiani, tante nuove idee, tanta nuova cultura. Stendhal è francese ma orgogliosamente milanese, flanella per le vie della città sempre dietro a qualche bellezza. Foscolo è il Poeta, Manzoni più giovane lo segue. Appiani dipinge e Canova scolpisce la nuova arte, così come Canonica per l’architettura. Scompaiono le parrucche, la moda s’alleggerisce e tutti sono più eguali. Si è riconosciuti per il proprio merito. Si scrive il codice civile, d’ora in poi il diritto è più certo.
Come con tutto, c’è un risvolto. Le imposte che i fratelli francesi chiedono per contribuire al sogno universale aumentano ogni giorno e troppi giovani, partiti per portare gli ideali rivoluzionari agli altri popoli, sono morti sui campi di battaglia. Troppo sangue, troppe guerre.
Melzi d’Eril, vice presidente della Repubblica Italiana, crede che sia tempo che l’Italia sia nazione e che gli italiani paghino molto meno tributi ai francesi. Lo spiega a Napoleone, pochi giorni prima che s’incoroni imperatore dei francesi nel dicembre del 1804 a Parigi. L’Imperatore ascolta ma nega su tutta la linea, gli italiani non sono maturi per autodeterminarsi. Il sogno inizia forse a svelarsi sempre più equivoco e ingannevole.
Il treno continua la sua corsa, ma alla spinta rigenerativa si sostituisce via via quella inerziale. Poi allenta, a Waterloo tutto si ferma. Il silenzio.
Le carte dell’Archivio di Stato tornano a raccontare una realtà di sonnolenta e forzata restaurazione.
I “vecchi dei” vorrebbero ripristinare l’antico ma faticano a far tornare indietro le lancette dell’orologio. E quando si sentono sicuri di riuscirci con la morte di Napoleone nel 1821, tutto gli salta in aria. Ovunque rivoluzioni e, per l’Italia, il principio di un nuovo cammino per la propria autodeterminazione in nazione. E forse quel giovane generale ventottenne l’aveva raccontata per il verso giusto.
E Milano ancora una volta, suo malgrado, rinnova il proprio destino di incubatore di rotture epocali.