Durante le 5 giornate di Milano le barricate sorgono ovunque, innumerevoli. Se ne conteranno milleseicento. Ci sono quelle più semplici, fascine legate assieme con catene o corde, e ci sono quelle fatte accatastando materassi, ante scardinate, scaldini per l’inverno, sedie accatastate, banchi di chiese, pianoforti. A Porta Romana si fanno con le carrozze di Corte trovate vicino alla Chiesa di San Giovanni in Conca. Poi ci sono quelle mobili: uno scudo di fascine con due ruote laterali, invenzione preziosa del professor Antonio Carnevali, docente di matematica e strategia alla Scuola Militare di Pavia.
In ogni caso ci si arrangia con quello che si ha. Ad esempio, per costruire la barricata in piazza Cordusio risultano utilissimi i libri dell’Ufficio del Bollo.
I soldati austriaci occupano una cinquantina di edifici, si schierano sui bastioni, chiudono tutte le porte della città per impedire l’ingresso dei contadini che dalle campagne circostanti vogliono portare il loro aiuto ai milanesi; parte delle truppe prende posizione sul Duomo, Palazzo Reale, Broletto, Palazzo del Genio Militare.
La lotta è accanita. Cadono in molti, crivellati di colpi. I feriti vengono trasportati all’Ospedale Maggi.
Pasquale Sottocorno mangiava, dormiva, accoglieva gli amici in un locale angusto dietro la sua piccolissima bottega di ciabattino, una tenda marrone divideva i due spazi che rappresentavano tutto l’orizzonte della sua vita.
Un limitato orizzonte che si sarebbe spalancato in quel 1848.
Sarebbe arrivato anche per lui il giorno speciale dell’esistenza, che avrebbe trasformato una vita tranquilla ma insignificante in un’avventura in grado di far propria l’irruzione che sconvolse la Storia.
Contrada dei Tre Monasteri, 21 marzo. Dirige l’assalto Augusto Anfossi, comandante di tutte le forze attive, armato di pistola e di una scimitarra turca trovata chissà dove. Al suo fianco Manfredo Camperio, Luciano Manara, Agostino Bertani e il giovane chierico Giovanni Battista Zafferoni. Per sfondare la porta dell’edificio del Genio Militare austriaco devono riuscire a piazzare un piccolo cannone sul balcone del palazzo di fronte, sede del Monte di Pietà. Erano riusciti a portare su il cannoncino che adesso era puntato verso il portone del palazzo di fronte. Di là i militari sparavano senza risparmio, di qua si cercava di rispondere; nella concitazione il cannoncino sembrava più d’impiccio che d’utilità. Un sibilo di pallottola. Sangue che schizza. Un corpo che, in un sussulto, si abbandona all’indietro. Il proiettile ha ucciso Anfossi.
Fra urla, ordini gridati, spari, fumo, d’improvviso il passo lento incerto d’uno sciancato.
E’ a questo punto che Pasquale Sottocorno entra in scena. Il ciabattino lascia il suo dischetto con appoggiata sopra la scarpa che stava riparando e si avvia verso il mastodontico palazzo occupato dalle forze austriache.
Tre volte farà il percorso, prima con un fascio di paglia, la seconda volta con dell’acquaragia ed infine con dei fiammiferi, zoppicante nel mezzo degli spari.
E’ come se il tempo si fosse fermato, i minuti non scorressero, immobili gli altri intorno a lui – i nemici irridenti, i patrioti sgomenti – tutti ipnotizzati dal suo gesto. Poi sarà una vampa di fuoco, poi saranno le mani alzate degli austriaci che sventolano un fazzoletto bianco segno della resa dei centosessanta uomini del presidio. Poi sarà l’urlo d’entusiasmo che esce dalle gole dei milanesi e si alza sino al cielo. E un uomo solo, in un angolo, prima di essere afferrato da cento mani e stretto da cento abbracci, guarderà verso la fumante breccia aperta dal coraggio del suo cuore.
E in quel brevissimo istante, per lui eterno, comprenderà il senso della sua vita.