Le azioni del governo Draghi in Libia

La visita del presidente del Consiglio italiano Mario Draghi in Libia il 6 aprile ha rappresentato un passaggio fondamentale per ridisegnare il nostro ruolo nel Paese. Dopo anni di disordini e guerre civili che, soprattutto negli ultimi mesi, hanno visto l’Italia ai margini della politica libica (sovrastata dall’interventismo di altre potenze), Roma può recuperare il suo storico ruolo di partner privilegiato e fungere da “apripista” per un rinnovato impegno europeo nella ex Jamahiriya. In questo contesto ci sono molti asset che l’Italia può sfruttare ma anche alcune criticità che sarà necessario superare per consolidare la nostra posizione.

I punti di forza dell’Italia

Da quanto emerso durante la conferenza stampa congiunta tra Draghi e Dbeibeh, l’Italia ha importanti carte da giocare su due “tavoli”: infrastrutture ed energia. Il nuovo leader del governo di transizione libico ha più volte ricordato che una delle questioni più importanti è la riattivazione dell’accordo di amicizia del 2008 siglato tra Gheddafi e Berlusconi che prevedeva, tra le altre cose, la costruzione dell’autostrada costiera dal confine tunisino a Bengasi. Un progetto del valore di circa 5 miliardi di dollari. Per le nostre imprese, però, le opportunità sono anche altre, a cominciare dalla ricostruzione dell’aeroporto internazionale della capitaleTripoli, i cui lavori sono stati assegnati a un consorzio italiano. L’obiettivo è riattivare quanto prima i voli tra la Libia e l’Italia.

Altro tema fondamentale riguarda l’energia, vitale per il popolo libico e per Dbeibeh che, da uomo d’affari qual è sempre stato, non nasconde l’intenzione di fondare il processo di pacificazione interno proprio sulla ripresa economica, incentrata sull’export di gas e petrolio, ma anche sulla ripresa dell’erogazione di elettricità nel Paese. Più volte, nel suo discorso, ha ricordato l’importanza storica dell’Eni in Libia, auspicando un aumento della collaborazione con l’Italia nel settore dell’elettricità e dell’energia. Non è un caso che il 21 marzo scorso il ministro degli Esteri italiano, Luigi di Maio, si sia recato a Tripoli con l’amministratore delegato del “cane a sei zampe”, Claudio Descalzi. Già lo scorso luglio, Eni aveva firmato un memorandum d’intesa con la General Electric Company of Libya (GECOL), la società elettrica nazionale libica, per la fornitura di pezzi di ricambio e per la formazione del personale. È plausibile ipotizzare che possa ampliare i suoi investimenti anche alla realizzazione di una centrale elettrica e supportare la Libia nell’introduzione delle energie rinnovabili.

Ci sono, però, anche altri temi rilevanti. Draghi ha espressamente ribadito la necessità di riattivare i rapporti in ambito culturale dando «pieno impulso all’Istituto di cultura italiana nel Paese» e aumentando le borse di studio per gli studenti libici che intendono apprendere la lingua italiana. Insomma, una partnership a tutto tondo che guarda al futuro ma con un occhio rivolto al passato e che, se ben gestita, potrebbe riportare l’Italia in cima alla lista dei partner della Libia ed ottenere un ruolo guida in sede europea per una linea comune e condivisa nel processo di stabilizzazione del Paese.

Le criticità

Nonostante il quadro fin qui delineato appaia piuttosto roseo per i rapporti italo-libici, non mancano delle criticità che devono essere superate se davvero si vorrà trasformare il rilancio della Libia “a marchio Italia”.

In primo luogo, il premier Draghi, pur avendo elogiato il primo ministro Dbeibeh per gli sforzi fatti per i salvataggi dei migranti in mare, non ha nascosto che il problema è di dimensioni ben più complesse. Lo stesso Dbeibeh ha affermato che «l’immigrazione non riguarda solo la Libia. La Libia è un Paese di passaggio. È un problema europeo, libico e internazionale». Sarà dunque necessario che il premier italiano riesca a coinvolgere l’Europa ‒ e soprattutto la Francia con cui è necessario realizzare un asse più solido ‒ per sgominare le reti dei trafficanti che dal Sahel arrivano al confine Sud della Libia. Ma i problemi non finiscono qui. In Libia si parla di elezioni a dicembre, ma non esistono né una legge elettorale né una Costituzione approvata. Dietro al governo unitario covano ancora le rivalità tra milizie ben armate che, dalla morte del rais, hanno occupato porzioni di territorio e potere crescente in molte zone del Paese. Manca ancora un’intesa tra le principali tribù libiche, specie nel Fezzan. Il problema potrebbe essere parzialmente risolto con la redistribuzione dei proventi petroliferi e l’inclusione di alcune milizie in un esercito regolare. Compito assai arduo che potrebbe vedere i gruppi esclusi esacerbare il livello di violenza interno. Uno dei problemi più spinosi riguarda, poi, la presenza di attori stranieri sul terreno, in particolare Russia e Turchia. Una “smilitarizzazione” è indispensabile ma non semplice da realizzare: difficilmente Putin ed Erdoğan faranno dei passi indietro dopo aver guadagnato sul campo importanti sfere di influenza. Sarà necessario, in qualche modo, scendere a patti con questi attori, specie con la Turchia che ha ancora basi strategiche in Libia e una forte influenza a Tripoli e dintorni. Su questo aspetto forse sarà inevitabile dialogare con Erdoğan, che ci piaccia o meno. Il Sultano è in difficoltà sul fronte interno e probabilmente, nonostante la sua aggressiva Realpolitik, non ha la capacità tecnologica ed economica per garantire una duratura ed efficace ricostruzione della Libia. Tuttavia, visti i rapporti tesi con gli Stati Uniti, dovranno essere gli europei a farsi carico del fardello di tenere Ankara ancorata al perimetro atlantico. Resta, infine, un’ultima incognita. Il nuovo premier Dbeibeh, eletto formalmente il 10 marzo, resterà in carica fino al 24 dicembre, data prevista per le elezioni nel Paese. Cosa accadrà dopo?

Insomma, se il buongiorno si vede dal mattino, l’Italia ha finalmente ritrovato la sua strada per la Libia, ma il percorso è ancora all’inizio e irto di ostacoli.

(Articolo apparso su “Treccani” l’8 aprile 2021)