Europa, la scacchiera del sultano

Forse è vero che una nazione che è stata un impero non rinuncerà mai definitivamente al pensiero di tornare a esserlo.

Certo gli ingredienti in Turchia ci sono tutti: un presidente-sultano, carismatico, lucido sognatore del ritorno alla dignità imperiale, abile manipolatore dello spirito revanscista e dell’orgoglio islamico, cinico pianificatore del proprio ineluttabile destino.

Recep Tayyip Erdoğan è questo e molto altro ancora (per esempio disinvolto amministratore di vasti interessi personali e familiari), ma certamente egli appare agli occhi di una larga maggioranza di turchi come colui in grado di sovvertire l’umiliante esito della prima guerra mondiale, che costrinse gli ottomani a ripensarsi nazione, privati in un sol colpo non solo delle dimensioni territoriali del dissolto impero (che comprendeva tutti i Balcani…fino a sotto le mura di Vienna…, l’Africa settentrionale, Egitto compreso, l’Ungheria, la Bulgaria, la Romania, l’intera Mesopotamia sino alla Persia e parte della penisola arabica, Mecca inclusa) ma anche di ogni pretesa di egemonia culturale, sociale e religiosa.

La Turchia post ottomana, (nata il 24 luglio 1923 con la firma del Trattato di Losanna dal quale nasce la Repubblica), sbriciolatosi il sultanato, si è rivolta a modelli propriamente occidentali, soprattutto francesi (Repubblique per antonomasia), di cui il laico (se non ateo) Kemal Ataturk fu convinto, efficace portatore, tanto da divenire padre della patria, divulgatore di condivisi principi liberali, autore di un profondo processo di secolarizzazione e modernizzazione dello stato, della società e dell’esercito. 

Nel volgere di alcuni decenni, la Turchia ha intrapreso un percorso inverso rispetto a quello tracciato dal kemalismo, inebriata dalla retorica dell’ex venditore di focacce (da bambino), ex calciatore (da ragazzo), poi politico islamico nella Turchia laica, sindaco di Istanbul, tre volte primo ministro e, infine, presidente della repubblica con pieni poteri.

L’inarrestabile ascesa al vertice dello stato del presidente-sultano ha segnato un passaggio decisivo nell’estate di quasi cinque anni fa.

Prezioso come la manna dal cielo, il tentato golpe del 15 luglio 2016 – poco cruento, poco convinto, tutto sommato poco credibile – ha offerto a Erdogan la storica opportunità di fare piazza pulita delle strutture e sovrastrutture statali ancora non soggiogate al suo partito (AKP), oppure rispondenti al suo ex alleato, il religioso Fethullah Gulen, che dalla Pennsylvania avrebbe tramato per scalzare il nostro aspirante sultano (due papi viventi si sono visti ma non vedremo mai due Reis dividersi il potere).

Arresti di massa (si parla di centomila incarcerazioni) fra funzionari pubblici, insegnanti, magistrati, ufficiali dell’esercito, giornalisti, hanno accelerato il processo di accentramento del potere e messo alle corde l’opposizione liberale ed il competitore diretto al sultanato (Gulen, oggi ufficialmente pericolo pubblico n. 1, se ne sta ben nascosto in USA).

Il disegno neo-ottomano, già molto chiaro nelle vicende interne, è ancor più esplicito nelle dinamiche internazionali: se, all’interno, vale la regola che “la democrazia è come un tram, quando non serve più, si scende”, in politica estera vale il monito “la Turchia è nata sul campo di battaglia, non in una scrivania”.

La strategia espansionistica prende le mosse dall’aggressione iconografica: lo schiaffo al mondo laico occidentale e al cristianesimo tollerante è stato di quelli che hanno fatto barcollare persino Papa Francesco, dichiaratosi “addolorato” per la (ri)conversione della Basilica di Santa Sofia in moschea, operazione di incalcolabile valore simbolico, evidente sfregio non solo verso l’ecumenismo bergogliano (Papa e sultano si erano incontrati nel 2018, “significativa opportunità per attirare l’attenzione sui comuni valori umani e per trasmettere messaggi di pace e amicizia”…) ma anche verso i “traditori” interni, ormai esplicitamente identificati con i laici orfani di  Kemal Ataturk.

Ma ce n’è per tutti!

Anzitutto per i curdi, costantemente oggetto di pesante “attenzione” militare, sia al di qua del confine iracheno, sia ben oltre lo stesso, limite disinvoltamente violato per muovere alla riconquista dell’area mesopotamica (rieccoci!) dopo l’evaporazione della sovranità di Baghdad.

Ce n’è per la Grecia, costantemente minacciata, via mare militarmente e via terra  (assieme a tutta Europa) dalla bomba migratoria, camuffata da ragioni umanitarie ma utilizzata con sacrilega indifferenza per paventare il finimondo nei Balcani attraverso il confine di Kastanies (dice il sultano: “Tutti i Paesi europei che oggi chiudono le porte ai migranti, li picchiano e colpiscono con bastoni e cercano in tutti i modi di mandarli indietro, calpestano i diritti umani stabiliti dalle convenzioni internazionali”).

Ce n’è per l’intera Europa, generosa e interessata dispensatrice di miliardi per ingraziarsi la benevolenza del suo estortore, che incassa…ma non allontana la canna della pistola dalla tempia della vittima imbelle.

Ma, si sa, quando si dice Europa si legge Germania, il paese a maggior rischio di tensioni etnico-razziali con la più alta immigrazione turca (iniziata nel 1961 con “Accordo per il reclutamento di manodopera tra la Repubblica Federale di Germania e la Turchia” e proseguita con moltitudini di “ricongiungimenti familiari”) oggi cuore pulsante delle avanguardie neo-ottomane nel nostro continente (oltre cinque milioni i turcofoni residenti).

Le zone d’influenza di una Turchia che non vuole più essere “solo” Anatolia sono espresse da traccianti ben visibili, indirizzati verso i quattro punti cardinali: l’asse verticale nord/sud corre lungo i Balcani, coinvolgendo le popolazioni musulmane dell’ex impero (Kosovo, Bosnia Erzegovina, oltre a Serbia e Bulgaria) fino all’Ungheria (quasi sotto le mura di Vienna…), giù fino all’estremo meridione della base militare in Qatar, a presidio del Golfo Persico, alfiere posto a monito per i nemici locali (Emirati Arabi Uniti).

Lo sviluppo dell’asse orizzontale est/ovest contempla la relazione ambigua con la Russia (prevalentemente utilizzata in funzione anti USA), oltre all’alleanza con l’Azerbaigian (che regala una preziosa vista sul Mar Caspio) recentemente consolidatasi, passando da prospettiva solo strategica a vero e proprio posizionamento logistico-militare con l’appoggio di Ankara in favore degli azeri nella campagna per il Nagorno Karabakh.

Ancora una volta, lo spregiudicato Reis di Ankara si fa beffa di tutto e tutti: si prende gioco della NATO (della quale farebbe parte…), secondo i cui standard gli ufficiali turchi addestrano le truppe azere per combattere quelle armene, che con la NATO collaborano da decenni (attraverso un Individual Partnership Action Plan). Manipola la sua tresca con Putin, al quale concede le operazioni di peace keeping nel Nagorno Karabakh ormai consegnato agli azeri, senza fargli “sentire” i toni anti-cristiani utilizzati “a casa” per alimentare la propaganda neo-ottomana.

Sempre su questo asse, si colloca la decisa espansione verso il Maghreb – Libia in particolare – gravida di conseguenze per l’intero continente europeo e per l’Italia in particolare.

L’enorme pressione migratoria che dalle coste libiche (e tunisine) minaccia l’estremo sud Europa (ahinoi coincidente con il meridione del nostro Paese) è in buona parte controllata da Ankara (attraverso traffici che è eufemismo definire torbidi), che ha tutta l’intenzione di massimizzare il profitto di un così efficace strumento di pressione.

Il controllo (telecomandato) del flusso dei migranti, oltremodo agevolato dall’inconsistenza di credibili politiche europee e dal ventre molle nostrano, sarà l’arma più insidiosa con la quale i neo-ottomani si siederanno al tavolo con l’Europa, per trattare – secondo la loro prospettiva – non l’ammissione della Turchia nella UE ma bensì la resa del Vecchio Continente al nuovo sultanato, di fatto già largamente presente all’interno dei labili confini europei.

La descritta strategia trova il suo completamento nella conquista della “Patria Blu”, partita geopolitica centrata sul mare nostrum, sempre più intensamente presidiato dalle unità della marina della mezza luna, sia per premere sul dirimpettaio greco, sia per affermare la supremazia sull’intorno geografico, sia – ancora – per vitali interessi economico-energetici.

Mentre non si affievolisce l’eco dei versetti coranici declamati a Santa Sofia, le trivelle di Ankara – protette da navi militari – perforano senza ritegno nel mediterraneo dell’est (temeraria violazione dei trattati internazionali, beffardo spregio ai legittimi titolari delle concessioni, ENI anzitutto) alla ricerca di idrocarburi, suggellando la nuova via delle relazioni internazionali del sultano, lastricata di prevaricazioni, estorsioni, propaganda e retorica imperialista.

L’Occidente, inerte e diviso, esprime preoccupazione…il sultano prepara lo scacco matto!