Esistono varie tipologie d’azienda. L’Italia le accoglie certamente tutte e tale diversità ha consentito da un lato di poter superare qualsiasi tipologia di crisi (lo si nota proprio in questi giorni in cui ci si stupisce della velocità con cui in sostrato aziendale italiano sta rispondendo alla “ripresa”) e, dall’altro, di poter dare sfogo alla fantasia e al talento di uomini che hanno raggiunto il successo ben oltre i nostri confini.
Tra queste però ne esiste una che esula gli schemi e le convenzioni codificate, è aliena a tal punto che – pur cimentandosi – è impervio trovarvi similitudini non solo con le normali società di capitali o di persone, ma anche tre quelle della medesima “specie”. Stiamo parlando delle start up.
Eh sì, perché le start up non solo sono diverse, ma hanno tanti geni differenti: poche matrici comuni, qualche sparuta similitudine adottata più per convenzione di comodo che altro. Sono così differenti dalle altre società a tal punto che qualsiasi normativa di diritto del lavoro o di prassi nella gestione delle risorse umane risulta di così tanto difficile applicazione da far pensare che se ne debba creare una apposita.
La start up è un “organismo in potenza” alimentato dall’energia delle idee e dalla passione dei founder che pulsa per un obiettivo chiaro: l’”exit”, il momento della trasformazione che giunge alla fine di un percorso ricco di insidie e di trabocchetti, fatti da lusinghe economiche, da errori di valutazione, da congiunture sfavorevoli.
Come tutte le singolarità, la gestione di una start up necessita di specifica competenza, necessaria per assecondare in modo complementare l’immaturità imprenditoriale (che mai crescerà) dei suoi founder, che in alcuni casi necessitano di un tale tutoraggio da quasi sublimare la professionalità di chi le supporta verso la saggezza.
La start up ha un proprio linguaggio, delle parole e degli atteggiamenti. E questa è indubbiamente la questione di maggior impatto verso il mondo esterno se si considera che spesso alcune parole, per lo più anglofone, possono avere un significato intrinseco differente da quello comune.
Per non parlare del tempo: nelle scuole di management si insegna che la percezione del tempo deve essere positiva e che questo deve essere utilizzato con rispetto nelle situazioni e con gli interlocutori; nelle startup il tempo è nemico e si legge come un countdown rispetto all’obiettivo finale.
Ma cosa fanno le start up? A questa domanda un distratto lettore potrebbe attendersi l’indicazione di un settore merceologico preferenziale o l’indicazione di un servizio o prodotto. Ecco, questo è forse il modo migliore per fare comprendere la particolarità: le start up realizzano innovazione attraverso modelli di business replicabili e con una metodologia scalabile.
È nella dimensione dinamica e competitiva, volta a creare nuove opportunità per fare impresa e incoraggiare l’occupazione, che si deve fissare il coraggio (inteso nella sua accezione più tradizionale) di voler promuovere una strategia di crescita sostenibile e lo si fa partendo dalla solidità dell’azienda, del suo team e della sua perfetta aderenza rispetto ai processi normativi e di cultura organizzativa.
Lavorare verso una startup traction positiva ed un successo che sia, quindi, attraente agli occhi di investitori e sofisticatore di assetti decisionali significa, tra le altre cose, investimento nella solidità di impresa creando sin da subito elementi e parametri di correttezza, trasparenza dell’organizzazione delle risorse. Valorizzare il team perché strutturato, valorizzare il tempo e il riconoscimento perché disciplinato e valorizzare l’idea perché protetta da una diversa forma di strategia.
Ciò significa quindi: struttura strategica, procedure e rispetto delle norme applicate nella loro miglior forma di interpretazione in soluzione ai geni e alla diversità di tutte le Start Up, in nascita e in evoluzione.
… e quindi, possono le start up costituire il sostrato per il rilancio?
La risposta è difficile se non si analizza il “fenomeno start up“ nel suo complesso, nel moto propulsivo che queste generano indipendentemente dal loro successo o fallimento, quindi semplice se si pensa a loro come un insieme di generazione di idee, modelli, questioni e risultati: ma il big bang primordiale non è stato così?
di Camilla Salmoiraghi, ArlatiGhislandi – AG Studi & Ricerche