Cosa dice la legge oggi?
La situazione di gravità che viviamo non merita commenti. Personalmente credo che qualche dato in meno e qualche sorriso in più non guasterebbero: purtroppo non è così. A rendere ancor più difficile il nostro vivere si è inserito il tema del vaccino. Lo aspettavamo come la soluzione di tutti i mali, ma abbiamo visto che siamo lontani da una soluzione: chi dovrebbe organizzare le somministrazioni non è capace, le aziende produttrici promettono quantità di vaccino enormi e poi non mantengono nulla… e via così.
Nel contempo, si sono moltiplicate le voci di chi non crede all’efficacia del vaccino o semplicemente non ritiene di doverlo assumere.
Una domanda e d’obbligo: come ridonda la situazione nell’ambito del rapporto di lavoro? In altre parole: che succede se il dipendente di un’azienda o di un ente qualsiasi rifiuta il vaccino? Può essere licenziato?
La risposta non appare semplicissima, anche perché involve una serie di questioni non solo etiche, ma che toccano alcuni aspetti tipici del rapporto di lavoro subordinato.
Cominciamo con il dire che la nostra Costituzione, all’art. 32, tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo, aggiungendo, al secondo comma, che “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Quali sono i doveri del datore di lavoro?
Tenuto presente questo principio generale, va subito detto che l’art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro di scegliere le migliori soluzioni, necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro. Tali misure vanno adottate secondo l’esperienza e la tecnica conosciuta.
In base al concetto di esperienza, l’imprenditore deve fare tesoro dei fatti accaduti, deve tener conto di pericoli effettivi e potenziali, deve valutare i rimedi da adottare, con riguardo al tipo di attività che si svolge all’interno dell’azienda.
Il criterio della tecnica, invece, impone la costante adozione di tutte le misure preventive che il progresso, le innovazioni scientifiche, quelle tecnologiche suggeriscono.
Acconto a questi principi di carattere generale, si pongono quelli contenuti nel d. lgs. 9 aprile 2008, n. 81 (Testo unico sugli infortuni e la sicurezza sul lavoro) e sue successive modifiche che specificano quei principi generali che abbiamo appena visto, sia pur sommariamente.
Innanzitutto, va ricordato che la norma regola già la materia del virus e dei conseguenti vaccini: l’art. 266 precisa che “Le norme del presente titolo si applicano a tutte le attività lavorative nelle quali vi è rischio di esposizione ad agenti biologici”. Il successivo art. 267 chiarisce che agente biologico è “qualsiasi microrganismo anche se geneticamente modificato, coltura cellulare ed endoparassita umano che potrebbe provocare infezioni, allergie o intossicazioni”. La norma è molto chiara!
Andiamo oltre: che succede se un datore di lavoro scopre l’esistenza di una esposizione ad un agente biologico? Ricordiamo che l’art. 42, co. 2 del d.l. 18/2020, il famoso decreto Cura Italia (poi convertito nella L. 27/2020), ha riconosciuto che l’infezione da coronavirus, se avvenuta in occasione di lavoro, costituisce un infortunio sul lavoro protetto dall’Inail; sul punto torneremo, ma intanto possiamo dire che l’infezione da Covid 19 è riconosciuta dal nostro ordinamento e può dirsi che sia uno degli agenti biologici descritti dal detto art. 266.
Orbene, se il datore, dopo aver comunque adottato tutte le misure di prevenzione previste dai protocolli di rito (art. 29 bis L. 6 giungo 2020, n. 40), scopre un dipendente affetto da Covid, applicherà le previsioni di cui all’art. 279 del più volte mentovato T.U. 81/2008. Ovvero, su conforme parere del medico competente, adotterà misure fra cui la messa a disposizione “di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente” e poi potrà disporre “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’articolo 42”. Tale ultima norma specifica che il datore di lavoro attua le misure indicate dal medico competente e qualora le stesse prevedano “un’inidoneità alla mansione specifica adibisce il lavoratore, ove possibile, a mansioni equivalenti o, in difetto, a mansioni inferiori garantendo il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza”.
Una prima conclusione: il datore di lavoro mette a disposizione un vaccino e se del caso allontana il lavoratore e può perfino demansionarlo; resta ferma la retribuzione.
Certamente il datore non somministra alcunché, perché ci deve pensare l’autorità competente e, fra i primi, il medico. Tuttavia, è messa a disposizione la cura più idonea che, in questo caso, potrà essere, appunto, il vaccino.
Proviamo adesso a capire quali i doveri del lavoratore.
Quali sono i doveri del lavoratore?
Innanzitutto, l’art. 20 del Testo Unico prevede che ogni lavoratore debba “prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”. La norma, di seguito, prevede tutta una serie di obblighi in capo al lavoratore, fra cui quello di “contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro”.
Orbene, vien fatto di chiedersi quale responsabilità abbia il lavoratore, nel caso in cui uno dei sistemi di tutela della salute sia la somministrazione di un vaccino.
In primo luogo, sarà necessario ricordare che, ai sensi dell’art. 32 Cost., II comma, “Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. Nessuna disposizione di legge ad oggi esiste, per il trattamento del vaccino contro il Covid 19, ma sussistono pur sempre i principi generali che abbiamo appena visto.
In verità, il discorso deve proseguire considerando quei doveri appena visti che impongono come detto al prestatore di lavoro di prendersi cura della salute altrui, tenendo in seria considerazione il proprio comportamento, quale quello di rifiutare un vaccino che esista e sia efficace.
Si tratta quindi di valutare quali conseguenze abbia il comportamento del lavoratore che rifiuti tout court il vaccino, senza che vi sia una qualunque ragionevole scusante al proprio comportamento (ad es.: allergie, controindicazioni varie, ecc.).
Quali sono i rimedi?
La prima risposta da dare è connessa ad una ipotesi di recesso per giusta causa: ovvero se sia possibile licenziare in tronco chi non vuole vaccinarsi.
Trattasi di una soluzione di cui si è molto parlato, ma che non convince, in quanto il diniego all’assunzione del vaccino, pur previsto come ipotesi dal TU 81/2008, involge una questione di rango costituzionale per la quale, come abbiamo visto, nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario, se non per legge. Ed anche l’art. 279 del T.U. parla di messa a disposizione della cura più efficace fra cui il vaccino. Dunque, se il lavoratore rifiuta assumere l’antidoto in questione, egli esercita un suo diritto, previsto addirittura dalla nostra Costituzione.
Una soluzione può essere quella dell’allontanamento dal posto di lavoro, che abbiamo visto essere regolato dall’art. 279 del T.U.; tuttavia con conservazione del posto di lavoro e della retribuzione. Almeno fino ad un eventuale ravvedimento del dipendente che si induca a mutare i propri intendimenti e ad assumere il vaccino.
Pure si potrà pensare ad una riorganizzazione dell’azienda che consenta l’adibizione del lavoratore a diverse attività, con possibilità di demansionamento, alla luce dell’art. 2103 c.c., per il quale: “In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale”.
Da ultimo, perseverando il rifiuto si potrà pensare alla sospensione dal rapporto di lavoro e dalla retribuzione, pensando ad una ipotesi impossibilità sopravvenuta temporanea (art. 1464 c.c.).
Sicuramente, nelle ipotesi viste, giocherà un ruolo fondamentale il medico competente che, insieme all’imprenditore, potrà riorganizzare, ove necessario e possibile, l’azienda.
Allontanamento e sospensione, dunque, ma non licenziamento, per quanto fin qui detto.
L’infortunio sul lavoro
Come avevamo accennato, l’art. 42 del d.l. Cura Italia (18/2020) ha dichiarato che l’infezione da corona virus, quando contratta “in occasione di lavoro”, costituisce infortunio sul lavoro, con conseguente liquidazione delle prestazioni dovute da parte dell’Inail.
Ora, si immagini che l’Ente in questione si trovi davanti alla situazione di chi si sia rifiutato di assumere il vaccino e si sia successivamente ammalato.
Non posso sapere come ragionerà l’Inail, ma vi è da credere che, di fronte all’ipotesi appena cennata, rifiuterà la tutela e non liquiderà nulla.
Credo che sia un deterrente di non secondario momento!
Fra l’altro che accade se un lavoratore prova di essersi infettato a causa di un collega che non ha voluto vaccinarsi? Ammesso che si riesca a dare la prova del nesso causale fra malattia contratta e comportamento omissivo, nulla vieta che il soggetto danneggiato agisca, per il ristoro del danno subito, anche nei confronti di chi ha rifiutato il vaccino.
Un principio di etica, che deve permeare ogni rapporto di lavoro, è insito nell’art. 2094 c.c.; esso statuisce che il lavoratore “collabora nell’impresa”. E collaborare vuol dire preservare la salute propria e degli altri colleghi di lavoro.
Dunque, se il vaccino è una soluzione al momento della pandemia in atto, è giusto che ciascuno senta il dovere di curare e/o prevenire se stesso e gli altri dagli effetti negativi del virus.