La stima nel datore di lavoro italiano

Ma pensiamo davvero che i datori di lavoro siano così sprovveduti?

Viene da pensarlo se i due schieramenti politici opposti, quello a favore e quello contrario al blocco dei licenziamenti, continuano a discutere prima circa la legittimità costituzionale e ora, più che mai a pochi giorni dalla scadenza imposta dalla norma, riguardo l’opportunità di proseguire in quello che pare un tutoraggio istituzionale nei confronti di chi fa impresa.

In tutta onestà la questione vera non si è posta ora, ma nel momento in cui il Legislatore del Governo Conte – forse ancora memore dei racconti dei dopoguerra – ha ridato vita a una misura che di fatto ricorda il tutoraggio economico del ventennio fascista più che un superamento dello stesso.

Buona prova che di misfatto si tratti è proprio la difficoltà nel suo superamento in un momento in cui l’imprenditoria italiana sembra lagnarsi a gran voce della mancanza di manodopera disponibile sul mercato del lavoro. Parimenti inquietante il fatto che l’Italia sia stato l’unico paese europeo a introdurre una simile misura (e questo pare dire molto relativamente ai propositi italiani di gestire politiche del lavoro condivise e integrate con quelli degli altri Paese dell’Unione).

Un pasticciaccio che avrebbe divertito Gadda se non si fosse certamente stranito nel constatare che, già nel 1946, esisteva una norma simile all’odierna cassa integrazione che, peraltro rivitalizzata anche in chiave pandemica, poteva con tutta evidenza essere la soluzione già a disposizione: il Governo Conte ha intuito, da lontano, ma non ha colto l’importanza di utilizzare la Cassa Integrazione Guadagni come driver dell’emergenza e si è appoggiato su di una misura difficile da sostenere e ora complessa nella sua dissolvenza.

Il tema su cui non può che soffermarsi il distratto osservatore è facile da individuare: ma siamo proprio sicuri che i datori di lavoro avrebbero optato per un licenziamento indiscriminato, licenziando a destra e a manca, ovunque e senza condizioni? e se sì … come mai avrebbero pensato di riprendere l’attività dopo il passaggio pandemico?

Analizziamo due dati statistici:

– il blocco dei licenziamenti, che ha ormai superato l’anno di vigenza, ha prodotto una riduzione del numero di cessazione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato contenendoli per solo un terzo rispetto a quelli comminati nell’anno precedente (fonte Centri per l’lmpiego);

– la vera riduzione è consistita nella mancata conferma dei tempi determinati (quelli che dovevano essere protetti dal Decreto Dignità); azione con la quale i datori di lavoro hanno fronteggiato la riduzione i decrementi delle proprie attività produttive e il correlato calo di fatturato.

Entrambi i fatti sono facilmente connessi e spiegabili anche con una superficiale conoscenza delle dinamiche di impiego aziendale: il datore di lavoro “medio” gestisce la manodopera specializzata utilizzando contratti a tempo indeterminato con cui mantiene e sviluppa il proprio know how per poi gestire le attività sussidiarie o i picchi di produzione ricorrendo al tempo determinato.

Facile immaginare quindi che in una situazione di difficolta oggettiva le aziende italiane abbiano prioritariamente “congelato” i propri lavoratori chiave (magari anche utilizzando la cassa integrazione) e siano intervenute riducendo il costo del lavoro non confermando quelli che, assunti a tempo determinato, erano stati utilizzati per le lavorazioni aggiuntive a quelle necessitate strutturalmente.

Era quindi davvero necessario creare una misura come quella del blocco coatto del licenziamento per accompagnare per mano il datore di lavoro nella gestione della sua azienda e arrivare a impedirgli di farsi del male distruggendo la collaborazione qualitativa dei propri dipendenti?

Difficile rispondere anche per chi conosce da vicino l’imprenditoria in Italia, ma è certo che il blocco dei licenziamenti viene ora strumentalizzato in ogni dove, facendo perdere un gran tempo a chi in materia di lavoro ha molto da innovare sia giuridicamente che amministrativamente.

Non solo, rimane forte il rammarico che la poca enfasi evolutiva adottata nell’utilizzo della CIG, del Fondo Nuove Competenze e del Contratto di Espansione, non abbia consentito alle aziende durante questo anno di lavorare compiutamente per essere pronti ad una ripresa che, puntualmente, si è dimostrata più veloce delle attese.

di Massimiliano Arlati, ArlatiGhislandi – AG Studi & Ricerche