Dall’insediamento di “the Donald”, nel gennaio 2017, i media più autorevoli, reti televisive in testa ma anche la stragrande maggioranza della stampa, hanno trascorso l’intera durata del mandato presidenziale narrando di una poderosa reazione “democratica e anti-razzista” nei confronti di Trump, accusato delle peggiori malefatte. Dall’Inauguration Day del gennaio 2017 in poi, l’intero sistema dell’informazione – con rare eccezioni (Fox News e pochi altri) – ha descritto una Casa Bianca sempre sull’orlo di una crisi esiziale. Con metodica e cadenzata insistenza, la presidenza Trump veniva descritta come ormai prossima alla resa: quella narrazione ha evocato un presunto rigetto di massa del trumpismo, liquidato come espressione della nutrita frangia incolta del voto repubblicano, voce dei deplorables (secondo la altezzosa aggettivazione della Clinton), rigurgito reazionario di simpatizzanti del Ku-Klux-Klan.
Ebbene, questa narrazione dev’essere infine risultata stucchevole, visto l’esito della tornata elettorale del 3 novembre 2020, che ha decretato una vittoria dimezzata, stentata, risicata, veementemente contestata, l’opposto di quanto pronosticato da sondaggisti e opinionisti, che avevano prefigurato una débacle senza precedenti per il Presidente uscente.
Evidentemente, le campagne del cosiddetto giornalismo investigativo, dal Russiagate (inchiesta Mueller) al movimento per l’impeachment (Ucrainagate), le rivelazioni tardive e ben remunerate di qualche signora circa presunte condotte scorrette del Presidente, quelle circa sue gravi irregolarità fiscali, le sommosse e i saccheggi attizzati, o benevolmente tollerati, per l’uccisione dell’afroamericano George Floyd da parte di un agente bianco (apoditticamente attribuita alla responsabilità presidenziale), la deprecata gestione del Covid19, hanno infine solo prodotto l’effetto di arginare la seconda, grande ondata di trumpismo, che comunque ha coperto di ridicolo ogni pronostico.
Il fatto che fossero stati i multimilionari atleti del football a genuflettersi, le straricche star di Hollywood a schierarsi per la sinistra liberal, i monopolisti della Sylicon Valley a pontificare di parità di condizioni, i giganti neri (dagli ingaggi stratosferici) della NBA a combattere all’unisono la presidenza in carica, ha suscitato in molti la fastidiosa sensazione che si trattasse di un’offensiva delle élites, atterrite dalla prospettiva di dover rinunciare a consolidati privilegi.
Le due aree costiere degli USA, i cui modelli di riferimento sono i lupi di Wall Street (a est) o gli oligarchi della Sylicon Valley (a ovest), si mostravano assai più vicine alle schizzinose élite europee che non al compatriota medio, spocchiosamente disprezzato (deplorables).
Illusi dall’autocompiacimento, dall’idea della missione salvifica, gasati dall’autoreferenzialità, i guru dell’establishment (a maggioranza liberal) sono andati a schiantarsi nell’Election Day.
Le balbettanti analisi consolatorie del giorno dopo, secondo le quali solo gli americani «brutti sporchi e cattivi» (settantacinque milioni!) avevano votato Trump non hanno attenuato il senso di frustrazione degli intellettuali e opinion leader progressisti: che Biden avesse conquistato la Casa Bianca è apparsa subito come l’unica buona notizia per loro.
Tutto il resto sembrava un disastro, al quale andava posto rimedio.
Si ma quale?
Il rifiuto di riconoscere la vittoria avversaria e le iniziative legali di Trump per l’accertamento dei brogli elettorali (veri o presunti), iniziavano a dare seriamente fastidio. Se l’accertamento della verità appariva irrealizzabile nelle poche settimane che separavano l’esito dell’elezione dal giorno dell’insediamento del Presidente neoeletto, le preoccupazioni si facevano più serie per tutto ciò che sarebbe potuto accadere nei mesi successivi, quando il sistema giudiziario non avrebbe potuto esimersi da una più approfondita analisi delle ragioni addotte dagli avvocati di Trump.
La vittoria dimezzata aveva dimezzato la fiducia dell’elettore medio nel sistema: lo stigma del dubbio aveva ormai privato il vincitore anche dell’aura di sacralità del rito elettorale.
Nel giorno del giuramento di Biden sulla Bibbia, quasi la metà (o più?) degli americani avrebbe storto il naso…
Non sarebbe stato affatto facile sradicare la furiosa certezza di molti che il «loro» presidente, Donald Trump, sia stato derubato della vittoria il 3 novembre. Non sarebbe stato semplice dissuaderli dalla convinzione che egli abbia vinto quel giorno, per essere poi sconfitto dai voti postali, espressi talvolta mesi prima e conteggiati per diversi giorni dopo la chiusura delle urne, in quello che è stato definito il “più barocco dei riti elettorali che l’Occidente conosca”.
“The Donald”, troppo dedito alla spasmodica confutazione dell’esito elettorale, si è infine distratto, offrendo ai suoi avversari l’occasione che cercavano…Quale migliore occasione di un evento traumatico, simbolico, taumaturgico per screditare in un sol colpo Trump ed il trumpismo, per dimostrare all’America e al mondo la natura triviale della protesta post-elettorale e dell’elettorato che la sosteneva, la sua intrinseca antidemocraticità, l’avversità dei filo-trumpiani a ogni forma di civismo, la loro insofferenza per le regole della convivenza civile.
L’ ”attacco al Congresso” da parte dei deplorables, condotto da inverosimili personaggi vestiti da ostrogoti, screanzati usurpatori del Tempio della democrazia, autodenunciatisi con dozzine di selfie che fanno il giro del mondo, ha assunto connotati davvero stravaganti, che il rispetto per le vittime della giornata impone di non ulteriormente commentare con toni sarcastici.
Certo è che quella vittoria dimezzata, stentata, risicata, veementemente contestata, ha ora trovato la sua dignità, Biden ha potuto giurare sulla Bibbia senza arrossire, protetto dagli uomini in mimetica della Guardia Nazionale.
“The Donald”, infatti, avrà presto altro incarico da assegnare ai suoi avvocati, quello di difenderlo dall’impeachment, rasserenante viatico per toglierselo di torno in vista del 2024 per i vincitori, dichiarazione di guerra permanente per i vinti.
Trump ha lasciato la Casa Bianca il 20 gennaio ma il suo fantasma aleggerà fra quelle stanze per i prossimi quattro anni, nel disperato tentativo di resistere alla dannazione della sua memoria, ormai decretata dagli apparati federali, il cui esplicito programma è trasformare Trump in un nemico pubblico, privo di parola, pretendendo non sia mai esistito.
Mark Zuckerberg (Facebook) e Jack Dorsey (Twitter) ne hanno già sentenziata la morte social, amplificando il rumore del silenzio al quale sono state ridotte le istanze dei negletti sudisti e dei metalmeccanici del Midwest.
Le elezioni 2020 segnano un punto di non ritorno, acuendo la già preesistente frattura fra le burocrazie strategiche (deep state) e l’America reale (democratica o repubblicana che sia), quella della (ex) middle class, già attanagliata da enormi difficoltà nella conservazione del reddito, il più delle volte insufficiente ad assicurare un’istruzione universitaria ai figli, in una società in cui il titolo di studio è sempre più discriminante.
Il voto trumpiano meritava dissezione meno ottusa e più aderente alla realtà di quella offertaci dai media (locali e nostrani): non sarà agevole liquidare settantacinque milioni di americani come anti-democratici, non sarà semplice l’opera di normalizzazione programmata dalla coppia Biden-Harris, men che meno sarà lieve realizzare il progetto di silenziare istanze destinate a restare rilevanti anche in assenza del loro primo portavoce: forse non sarà più “The Donald” ma i deplorables troveranno chi li rappresenti.